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Con sentenza del 10 gennaio 2020 n. 261, il Tar del Lazio si è pronunciato sul ricorso presentato da Facebook Inc. e Facebook Ireland Limited avverso il provvedimento emesso dall’Agcm che qualifica come pratiche commerciali scorrette, in violazione del Codice del Consumo, due distinte condotte aventi ad oggetto la raccolta, lo scambio con terzi e l’utilizzo, a fini commerciali, dei dati dei propri utenti consumatori.

Nel provvedimento si rileva anzitutto che, nella ricostruzione del ricorrente, si oppone il difetto assoluto di attribuzione dell’Agcm, in quanto, non sussistendo alcun corrispettivo patrimoniale e, quindi, un interesse economico dei consumatori da tutelare, la questione sia esclusivamente di competenza dell’Autorità Garante privacy. Sul tema, i Giudici aditi argomentano che tale approccio sconta una visione parziale delle potenzialità insite nello sfruttamento dei dati personali, i quali possono ben costituire un “asset” disponibile in senso negoziale, suscettibile di sfruttamento economico e, quindi, idoneo fungere come controprestazione. Pertanto, il fenomeno della patrimonializzazione del dato personale impone agli operatori di rispettare obblighi di chiarezza e non ingannevolezza delle informazioni previsti dalla normativa in favore del consumatore.

Passando all’analisi delle due condotte contestate dall’Agcm, la prima pratica – sanzionata con € 5 milioni – riguarda la fase di registrazione dell’utente nella piattaforma Facebook e consiste nel rilascio di un’informativa poco chiara e incompleta. Al riguardo, il Tar ha giudicato corretta la valutazione dell’Autorità, la quale rileva che il claim sulla gratuità del servizio offerto non consentiva al consumatore di comprendere che il professionista avrebbe poi utilizzato i dati dell’utente a fini remunerativi, perseguendo un intento commerciale.

La seconda pratica – sanzionata con altrettanti € 5 milioni – ha invece ad oggetto il meccanismo di trasmissione dei dati degli utenti registrati a Facebook dalla piattaforma del social network ai siti web/app di terzi. Agcm evidenzia (i) che la piattaforma era “automaticamente attivata con validità autorizzativa generale” mediante l’impiego di opzioni pre-flaggate, nonché (ii) l’utilizzo di espressioni atte a disincentivare l’opt-out dell’utente. Ad avviso dei Giudici, tuttavia, (i) l’affermazione dell’Autorità è frutto di una cattiva ricostruzione del funzionamento dell’integrazione delle piattaforme e (ii) osserva altresì l’assenza di elementi sufficienti a dimostrare l’esistenza di una condotta idonea a condizionare le scelte del consumatore.

Il TAR quindi accoglie parzialmente il ricorso, annullando il secondo provvedimento.

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