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Data l’elevata quantità di denaro in gioco, assistiamo alla proliferazione di NFT contraffatti che includono opere e marchi altrui senza l’autorizzazione del titolare dei diritti di proprietà intellettuale.

NFT è stata proclamata parola dell’anno e il suo utilizzo nel 2021 è aumentato dell’11 mila %. Il dizionario britannico Collins li definisce come “un certificato digitale unico, registrato in una blockchain, che viene utilizzato per registrare la proprietà di un bene come un’opera d’arte o un oggetto da collezione” ed è ormai chiaro che il loro vero valore è dato dal fatto che essi sono considerati degli status symbol, che assicurano ai loro proprietari riconoscibilità e appartenenza ad una community esclusiva, esattamente come accade con i beni di lusso nel mondo reale.

Data l’elevata quantità di denaro in gioco, specialmente quando parliamo di marchi o collezioni di successo, assistiamo alla proliferazione di NFT contraffatti che includono opere e marchi altrui senza l’autorizzazione del titolare dei diritti, così come di falsi account su cui questi vengono venduti.

Infatti, poiché le piattaforme non hanno un sistema per autenticare i propri utenti e verificare che abbiano effettuato una clearance dei diritti prima di creare e/o vendere l’asset digitale, gli NFT possono garantire la proprietà ma non l’autenticità perché se le informazioni originariamente inserite sono false o errate, gli NFT perpetueranno l’illecito in tutte le loro vendite future. Solo per dare un’idea del fenomeno, OpenSea ha recentemente riferito di aver riscontrato un aumento “esponenziale” di “uso improprio” del suo strumento di free minting e che “più dell’80% degli oggetti creati con questo strumento erano opere plagiate, collezioni false e spam“. Come possibile soluzione per superare questo rischio, le piattaforme che vendono NFT dovrebbero quindi considerare di verificare l’identità dei venditori, così come fanno i principali social media con i propri utenti.

Un altro problema che le aziende si trovano ad affrontare nel caso di NFT venduti da terzi che includono i loro diritti di proprietà intellettuale è dato dalla portata effettiva dei diritti di marchio. Entrambe le questioni sono emerse con evidenza nel caso dell’NFT “Baby Birkin”, un’animazione di un bambino che cresce all’interno dell’iconica borsa Birkin creata da due artisti, recentemente venduto all’asta per l’equivalente di 23.500 dollari, senza però che il brand avesse alcuna affiliazione né ricevesse alcuna royalty per la vendita di tale NFT. Infatti, la famosa casa di moda francese ha registrato il marchio “Birkin” per la pelletteria e le borse di pelle ma non per le opere digitali e gli artisti potrebbero dunque sostenere che i diritti di marchio del legittimo titolare non si estendono anche agli NFT.

È interessante notare che in questo caso la società ha deciso di non intraprendere le vie legali, mentre più recentemente una causa è stata intentata dalla maison negli Stati Uniti contro lo stesso artista per aver offerto la collezione di 100 NFT “MetaBirkins” raffiguranti diverse versioni della celebre borsa realizzate in pelliccia. Infatti, questa volta la società ha rivendicato la violazione dei suoi diritti di marchio per aver utilizzato il famoso marchio denominativo “Birkin” e il relativo trade dress senza il suo consenso, aggiungendo semplicemente il prefisso generico ʻmeta’, riferito al mondo virtuale in cui vengono scambiati beni digitali come gli NFT. La decisione è probabilmente dovuta anche al fatto che mentre per l’NFT “Baby Birkin” si trattava di un’unica opera che includeva un certo grado di rielaborazione artistica, nel caso delle “MetaBirkins” si tratta di una vera a propria collezione digitale di 100 NFT, in cui è dunque più facile ravvisare lo scopo commerciale ed escludere la difesa del fair use legata al diritto di espressione artistica eccepito dall’artista.

Il caso, che costituisce una delle prime vertenze in tema di NFT, solleva importanti domande sulla portata dei diritti di proprietà intellettuale nel metaverso. In particolare, fino a che punto i diritti di marchio esistenti delle aziende si estendono alle nuove tecnologie, specialmente se tali aziende non stanno ancora operando nel metaverso?

In questo scenario, celebri marchi come il famoso segno “Birkin” potrebbero probabilmente beneficiare della maggior tutela (extra-merceologica) garantita ai marchi che godono di rinomanza – che si estende anche a prodotti e servizi in classi diverse da quelle in cui il segno è stato registrato – mentre imprese di dimensioni più piccole potrebbero incontrare serie difficoltà nel fr valere i propri diritti qualora avessero registrato i propri marchi soltanto per prodotti fisici e non anche per i prodotti e servizi digitali.

In altri casi, invece, è impossibile identificare il venditore che ha offerto l’NFT sulle piattaforme e, soprattutto quando si è di fronte ad un elevato numero di falsi, i titolari dei diritti hanno deciso di intraprendere azioni legali direttamente contro le piattaforme. In particolare, come le piattaforme di social media e i marketplace di e-commerce, anche le piattaforme di NFT e di crypto art possono essere qualificate come hosting provider e sono dunque soggette al regime di responsabilità che si applica agli Internet Service Provider.

Tuttavia, date le peculiarità degli NFT e l’esistenza di questioni tuttora irrisolte (per esempio cosa succede se prima di ottenerne la rimozione dalle piattaforme gli NFT sono già stai venduti?), i principali marketplace stanno considerando ulteriori strumenti e misure per sorvegliare più efficacemente il mercato per cui ci aspettiamo che prossimamente verranno introdotte in tal senso anche misure specificamente legate al metaverso.

Su un simile argomento, potrebbe essere interessante il seguente articolo: “Il regime di responsabilità di un piattaforma di NFT per contenuti illeciti”.

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