La moda dei prodotti customizzati ha fatto sorgere una serie di nuove questioni legali in relazione principalmente alla tutela del marchio e alla possibile applicabilità del principio dell’esaurimento.
Negli ultimi anni è esplosa la moda dei prodotti customizzati, che stanno guadagnando sempre più popolarità in vari settori, dall’abbigliamento all’elettronica, passando per l’arredamento e molto altro ancora. Trattasi di prodotti che i consumatori possono personalizzare, creando articoli unici secondo le proprie preferenze.
Tuttavia, l’emergere della moda dei prodotti customizzati ha sollevato importanti questioni legali legate alla tutela del marchio e ai diritti di proprietà intellettuale dei brand che commercializzano i prodotti oggetto di personalizzazione. Il presente articolo si propone dunque di esplorare i limiti imposti a questa tendenza dalla prospettiva dei diritti di proprietà intellettuale, concentrandosi in particolare sul principio di esaurimento e sulle sfide come essenziali questioni legali che i prodotti customizzati sollevano per le aziende e i consumatori.
Con la registrazione del marchio vengono riconosciuti in capo al titolare una serie di diritti, tra cui il diritto di utilizzarlo in via esclusiva e di impedirne l’uso da parte di chiunque non sia autorizzato. Tuttavia, in base al principio di esaurimento del marchio, una volta che il titolare mette i suoi beni in commercio non potrà più opporsi ad ulteriori e successive commercializzazioni degli stessi sul mercato. Il principio di esaurimento è disciplinato all’art. 5 del codice della proprietà intellettuale, che prevede “1. Le facoltà esclusive attribuite dal presente codice al titolare di un diritto di proprietà industriale si esauriscono una volta che i prodotti protetti da un diritto di proprietà industriale siano stati messi in commercio dal titolare o con il suo consenso nel territorio dello Stato o nel territorio di uno Stato membro della Comunità europea o dello Spazio economico europeo”. Il comma 2 stabilisce però che tale principio non trova applicazione “quando sussistano motivi legittimi perché il titolare stesso si opponga all’ulteriore commercializzazione dei prodotti, in particolare quando lo stato di questi è modificato o alterato dopo la loro immissione in commercio. […]”. In tali casi, infatti, i consumatori potrebbero essere portati a credere che le modifiche apportate al prodotto siano state autorizzate dal titolare del marchio, facendo venir meno la funzione distintiva e di garanzia tipica della privativa in questione.
Per tale motivo alcuni servizi – quali, ad esempio, i servizi di riparazione o di pulizia di un prodotto – non sollevano particolari complicazioni rispetto all’ambito di applicazione del principio di esaurimento, permettendo quindi a un terzo di fornire tali servizi senza bisogno di ottenere l’autorizzazione del titolare dei diritti sul marchio. Diversamente, quando una terza parte interviene sui prodotti recanti il marchio apportandovi una modifica materiale in modo permanente con lo scopo di rivenderli (ad esempio, cambiandone il colore, aggiungendo applicazioni e dettagli o combinando il capo con elementi di altri brand), l’applicazione del principio di esaurimento è da ritenersi esclusa.
Sul punto, la dottrina è concorde nell’affermare che non qualsiasi alterazione del prodotto integri il limite al principio dell’esaurimento, ma solamente quella che interferisca con la specifica funzione del diritto di proprietà industriale che viene in gioco. Così, ad esempio, in materia di segni distintivi sarà rilevante la modifica del prodotto che pregiudichi la capacità di indicare la provenienza del segno o la sua attrattiva legata all’immagine di cui goda presso il pubblico di riferimento.
La giurisprudenza ha interpretato il concetto di alterazione o modificazione in senso più ampio, ricomprendendovi il riconfezionamento, la rietichettatura, e addirittura la rivendita secondo modalità di presentazione pregiudizievoli della notorietà del marchio. In tale prospettiva qualsiasi modifica alle modalità di presentazione del prodotto, ancorché limitata alla confezione o alla immagine complessiva, può in linea di principio essere vietata dal titolare del marchio (Tribunale di Milano, 28 febbraio 2022 e Tribunale di Torino, 12 maggio 2008).
Secondo un risalente orientamento giurisprudenziale, è stato ritenuto responsabile di contraffazione il soggetto che reimmette sul mercato prodotti da lui modificati, mantenendo tuttavia su di essi il marchio originario (Trib. Milano 21 febbraio 1977: il potere di uso esclusivo del marchio viene leso da chi manipoli il prodotto contrassegnato ad esempio sostituendone la parte esterna originale (nella specie: il rivestimento esterno degli accendisigari), poiché in tale caso egli estende abusivamente la protezione del marchio sulla parte proveniente dalla sua manipolazione ma non prodotta dalla ditta titolare del marchio, unica avente il diritto di servirsi in modo esclusivo del contrassegno). Nello stesso senso Trib. Milano 19 maggio 1980, secondo cui costituisce contraffazione di marchio la rivendita con il marchio originario di prodotti manipolati, dovendosi intendere per manipolazione qualsiasi alterazione (sostituzione, aggiunta, eliminazione) volta a modificare le caratteristiche originarie del prodotto e le modalità di presentazione di esso al pubblico. Sul punto, rileva anche la decisione del Trib. Milano 18 maggio 2004 secondo cui nell’ipotesi in cui parti di prodotti originali recanti un marchio vengano inserite da un terzo in nuovi prodotti, il terzo non può invocare il principio dell’esaurimento del marchio che riguarda la diversa ipotesi di ulteriore circolazione del prodotto originale sul mercato dopo una prima lecita immissione”.
Nel caso dei prodotti customizzati,, il prodotto è nuovo, autonomo e diverso rispetto a quello immesso sul mercato dal titolare del marchio e, di conseguenza, non da lui autorizzato. Con sentenza n. 1459 del 3 ottobre 2018, il Tribunale di Udine si è pronunciato sulla questione per la prima volta anche sotto il profilo penale, ravvisando in questo fenomeno un’ipotesi di contraffazione di marchio altrui ex articolo 473 c.p.. Il caso aveva ad oggetto la produzione e commercializzazione di spille ottenute dall’assemblaggio di bottoni recanti alcuni marchi figurativi e denominativi appartenenti al settore della moda. Parte di questi bottoni erano originali, altri contraffatti. Con riguardo alle spille realizzate con i bottoni contraffatti, il Tribunale di Udine ha ritenuto indubbia la sussistenza del reato, ma ha poi precisato che anche l’impiego di prodotti originali (ovvero, nel caso di specie, bottoni) integra l’elemento materiale del reato. Inoltre, è stato confermato che l’assemblaggio del prodotto finale dia luogo a un articolo del tutto nuovo che, sebbene rimanga contraddistinto dal marchio originale, non è stato prodotto o in ogni caso autorizzato dal titolare di quel marchio. Il Tribunale di Udine ha dunque concluso affermando che l’attività di customizzazione è lesiva della fede pubblica (ovvero il bene tutelato dall’art. 473 c.p.), proprio perché i nuovi prodotti customizzati recanti il marchio originale risultano idonei ad ingannare i consumatori rispetto all’origine imprenditoriale dei prodotti stessi.
Inoltre, il 25 luglio 2022, il Tribunale di Milano ha ritenuto sussistente la contraffazione dei marchi di Airwair International Ltd., titolare dei marchi “Dr. Martens” da parte della società resistente che pubblicizzava i celebri stivaletti customizzati attraverso l’aggiunta di borchie, glitter, schizzi di vernice, inserti in tessuto, ecc. e venduti come “modelli unici” a un prezzo superiore rispetto a quello degli articoli originali. Il Tribunale ha ritenuto “che il decreto pronunciato inaudita altera parte debba trovare conferma in quanto, come già osservato in tale sede, non si è verificato l’esaurimento dei diritti di privativa di parte ricorrente sui marchi di cui è titolare, non essendo applicabile tale principio allorché lo stato delle calzature Dr Martens è alterato o modificato dopo l’immissione in commercio da parte di AIRWAIR INTERNATIONAL Ltd (art.5 co.2 cpi), in assenza dell’autorizzazione di parte ricorrente”. Pertanto, sono stati disposti la descrizione e il sequestro dei prodotti contraffatti e l’inibitoria per la loro produzione, commercializzazione e produzione.
Questa decisione adotta un’interpretazione ancora più ampia del concetto di “alterazione” e segna sicuramente un passo importante per la tutela dei brand vittima di questo fenomeno, aprendo la strada a nuovi contenziosi.
Anche oltreoceano ci sono stati alcuni casi che hanno posto all’attenzione dei tribunali il tema delle personalizzazioni, anche se in questo caso – data la delicatezza del tema – come spesso accade le parti hanno cercato una soluzione transattiva. Ad esempio, il brand La Californienne vendeva Rolex personalizzati con cinturini colorati. L’azienda svizzera sosteneva che l’alterazione dei propri prodotti, volta ad includere anche parti non originali, facesse di un orologio autentico un orologio contraffatto, e affermava che tale operazione “rende nulla la garanzia di Rolex [sui suoi orologi], in gran parte perché lo scambio di parti fa in modo che Rolex non possa più garantire la qualità o le prestazioni di tali orologi”. Inoltre, Rolex sosteneva che La Californienne stesse confondendo i consumatori e che tale rischio di confusione non venisse meno per via “dalla stampa del nome dei convenuti sul quadrante dei prodotti alterati, poiché gli orologi recano anche uno o più marchi registrati di Rolex”. Inoltre, secondo Rolex, La Californienne intaccava deliberatamente il valore del brand svizzero e sfruttava la notorietà e la reputazione di tale marchio, traendone indebito vantaggio attraverso attività di promozione e pubblicità volte a far credere ai consumatori che la convenuta fosse a ciò autorizzata da Rolex. Le parti hanno raggiunto un accordo secondo cui La Californienne è autorizzata a comunicare ai consumatori che i suoi orologi sono Rolex d’epoca, ora modificati, ma le è fatto divieto di utilizzare o riprodurre qualsiasi marchio Rolex, anche sul proprio sito web, nonché di utilizzare una descrizione che includa parole o simboli che rappresentino i suoi prodotti come orologi Rolex.
Come potete notare le questioni legali che sorgono in relazione ai prodotti customizzati sono complesse e la soluzione da seguire dipende dalle peculiarità di ogni singolo scenario.
Su un argomento simile si veda l’articolo “Come i fashion brand possono promuovere la sostenibilità e proteggere il loro marchio“.
Autrici: Valentina Mazza e Carolina Battistella