La battaglia legale tra Hugo Boss e il Boss dei Panini giunge ad un parziale epilogo in Cassazione dopo ormai sette anni: con la recente pronuncia gli ermellini sanciscono nuovi principi in merito ai termini di uso comune.
Il tutto prende le mosse nel 2016 dall’opposizione di Hugo Boss alla registrazione del brand “Il Boss dei Panini”, richiesta da un chioschetto di Street Food di Santa Maria Capua Vetere. Hugo Boss è infatti titolare dell’omonimo marchio dell’unione europea “Boss” dal 2011. L’UIBM accoglie l’opposizione sostenendo che i due marchi avessero somiglianze a livello visivo, fonetico e concettuale; sottolinea inoltre che il marchio Boss gode ormai di una certa notorietà, elemento che gli consente di avere un proprio carattere distintivo. Ulteriore elemento che spinge l’UIBM ad accogliere l’opposizione è costituito dalla classe nella quale sono registrati i due marchi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lettera d) c.p.i.: il Boss dei Panini ha proposto domanda per la classe italiana 43 “servizi di ristorazione (fast food), catering in caffetterie fast food ristoranti fast food”, in modo analogo, anche il precedente marchio Boss è registrato nella classe UE 43, corrispondente a “Alloggi temporanei: Servizi per la somministrazione di bevande e alimenti”. Per quanto possa sembrare assurdo che un brand di abbigliamento registri il proprio marchio anche per prodotti della ristorazione, molti sono gli esempi di case di moda che aprono ormai all’ordine del giorno ristoranti esclusivi in terrazze e ville storiche. Per questi motivi, l’UIBM conclude che il rischio di confondibilità è attuale e accoglie l’opposizione.
Il chioschetto però, non volendosi dare per vinto, propone ricorso davanti alla Commissione ricorsi, che andrà a ribaltare completamente la decisione precedente, sulla base della valutazione dell’utilizzo del termine boss nel gergo comune. Il termine, come è ben noto, è di origine angloamericana e si riferisce, in generale, a colui/colei che esercita una posizione in cui è implicito un potere, un’autorità; valuta sempre la Commissione che la parola ha assunto in Italia molteplici significati, venendo utilizzata anche in modo scherzoso, come avviene, per esempio, per alcuni programmi televisivi (“Il Boss delle torte” o “Il Boss delle Cerimonie”) ed è proprio per tale motivo che non può ormai essere monopolizzato dall’azienda di abbigliamento. A fronte di queste valutazioni, è evidente che Boss sia qualificato dalla commissione ricorsi come un marchio debole, in ragione del fatto che, nella percezione collettiva, è bastevole aggiungere l’articolo “il” prima e l’espressione “dei panini” dopo, per escludere la confondibilità.
L’ultimo passaggio della vertenza è la Cassazione, la quale prende in considerazione aspetti non valutati dalla Commissione ricorsi: la natura patronimica del marchio “Boss” e la notorietà di cui esso gode. Da tali due elementi emerge chiaramente che il marchio Boss è un marchio forte e, come tale, necessita di una tutela più ampia. In ultima analisi, la Corte rimette alla Commissione le indagini sul se l’assenza di novità del marchio “Il Boss dei panini” debba essere affermata non solo avendo riguardo al rischio di confusione, ma anche al rischio di agganciamento, di cui all’art. 12 lett. e) c.p.i.
La vertenza è quindi ancora aperta e starà alla Commissione ricorsi valutare, sulla base delle indicazioni fornite dalla Cassazione, se sia possibile o meno registrare il predetto marchio.
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