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Nell’ordinanza n. 39763/2021, la Corte di Cassazione ha stabilito che la violazione dell’esclusiva riconosciuta al titolare del diritto d’autore costituisce danno in re ipsa, integrando di per sé la prova del danno, di cui il titolare del diritto deve solo provare l’entità, confermando la giurisprudenza sulla distinzione tra hosting provider attivo e passivo ed sul relativo regime di responsabilità.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso presentato da una società statunitense, condannata in sede di merito al risarcimento danni per la violazione ex art. 78 ter e 79 della Legge 633/1941 dei diritti d’autore di una nota società italiana licenziataria di concessioni televisive e dei diritti di sfruttamento economico di alcuni format televisivi, in quanto sul portale della società ricorrente erano stati caricati senza autorizzazione dei filmati dei programmi oggetto di esclusiva.

Respingendo la posizione della società statunitense che si era dichiarata mero hosting provider, la Corte di Cassazione ha escluso l’applicazione dell’esenzione da responsabilità dei prestatori intermediari di servizi della società dell’informazione previsto dagli art. 14 della Direttiva 31/2000/CE e art. 16 del D.Lgs. 70/2003. Riprendendo la sentenza n. 7708/2019, la Corte ha ribadito che un prestatore di servizi della società dell’informazione è qualificabile come hosting provider attivo qualora svolga un’attività che esuli da un servizio meramente tecnico, automatico e passivo, e ponga invece in essere una condotta attiva, come attività di filtro, aggregazione e promozione di contenuti. Secondo la Cassazione, la cernita ed il riordino dei contenuti sono il cuore dell’attività economica di un hosting provider, che con sistemi di data mining e di elaborazione massiva di big data trae guadagni dall’attività di hosting. Gli operatori possono contribuire in modo “causalmente determinante” alla diffusione dei prodotti illeciti, dal momento che tramite la profilazione degli utenti riescono a variare l’offerta dei contenuti a seconda delle preferenze dei destinatari, aumentando le visualizzazioni dei contenuti. Pertanto, un hosting provider attivo concorre nella commissione dell’illecito e non può essere ricompreso nell’esonero da responsabilità.

Nel caso di specie, la società statunitense è stata inquadrata come hosting provider attivo. Secondo la Cassazione infatti, non si sarebbe limitata alla fornitura dell’accesso agli utenti alla piattaforma o ad un mero posizionamento dei contenuti, ma avrebbe inciso significativamente nella gestione dei contenuti (i) usufruendo di team editoriale addetto alla selezione i contenuti audio-visivi per collegarli alla pubblicità in base alle visualizzazioni; (ii) effettuando una cernita dei contenuti audio e video per fini pubblicitari; (iii) utilizzando un software incompatibile con la figura di hosting provider passivo; e (iv) selezionando e collegando i contenuti di intrattenimento digitale alla home page.

La sentenza della Corte di Appello di Roma contro cui è stato presentato ricorso aveva anche sancito che la responsabilità della società statunitense fosse derivata dall’assenza di un intervento attivo nell’eliminare i contenuti illeciti segnalati dalla titolare dei diritti in due diffide, che la società statunitense aveva contestato essere generiche e prive dell’identificazione degli URL riferititi ai contenuti da rimuovere. Sul punto, la Corte di Cassazione ha ribadito che un hosting provider è responsabile qualora non provveda all’immediata rimozione dei contenuti illeciti quando (a) sia venuto a conoscenza dell’illecito commesso dal destinatario del servizio tramite il titolare del diritto leso o un altro soggetto; (b) possa constatare l’illiceità della condotta tramite la diligenza che è ragionevolmente da attendersi da un operatore professionale della rete; e (c) abbia la possibilità di attivarsi poiché messo al corrente in modo sufficientemente specifico dei contenuti da rimuovere. È compito del giudice di merito accertare se, tramite le conoscenze tecnico-informatiche, l’identificazione dei contenuti in violazione dei diritti di terzi sia effettuabile da un hosting provider solo con l’indicazione del nome o del titolo della trasmissione da cui sono tratti, come avvenuto nel caso di specie, oppure se sia necessaria la comunicazione degli indirizzi URL dove sono collocati tali contenuti.

In sede di ricorso, la società statunitense ha anche contestato la liquidazione dei danni in quanto sarebbe mancata la prova del danno patito dalla società italiana per effetto della trasmissione e memorizzazione dei video illeciti, in violazione dell’art. 158 Legge sul Diritto d’Autore che presuppone la prova del danno a carico del titolare e non un danno in re ipsa.

Nel ritenere tale motivo inammissibile, la Corte di Cassazione precisato che il danno era stato liquidato secondo il criterio del “prezzo del consenso”: l’art. 158 comma 2, terzo periodo, della Legge 633/1941, prevede infatti che il giudice possa “liquidare il danno in via forfettaria sulla base quanto meno dell’importo dei diritti che avrebbero dovuto essere riconosciuti, qualora l’autore della violazione avesse chiesto al titolare l’autorizzazione per l’utilizzazione del diritto”.

Citando la sentenza n. 21833/2021, la Corte ha ribadito che l’art. 158 della Legge 633/1941 prevede il duplice criterio della retroversione degli utili conseguiti dal responsabile dell’illecito grazie all’utilizzo indebito dell’opera altrui, e del prezzo del consenso. I due criteri sono “centri concentrici”, dal momento che il criterio del prezzo del consenso stabilisce la soglia minima della liquidazione, mentre il criterio degli utili conseguiti attribuisce al danneggiato i vantaggi e i ricavi economici che l’autore della violazione abbia conseguito in concreto, che ricomprendono certamente l’eventuale costo dell’acquisto dei diritti di sfruttamento economico dell’opera. Il prezzo del consenso, quale prezzo per la cessione dei diritti di utilizzazione economica dei diritti, va inteso come valutazione del presumibile valore sul mercato del diritto d’autore nel periodo della violazione, considerando degli elementi del caso concreto, come i prezzi nel settore, il pregio dell’opera e i guadagni ottenuti da questa durante la legittima utilizzazione dell’autore.

La Corte di Cassazione ha quindi concluso enunciando il principio di diritto secondo cui in tema di tutela del diritto d’autore e regime di responsabilità dell’hosting provider, la violazione di un diritto di esclusiva integra di per sé la prova dell’esistenza del danno, costituendo danno in re ipsa, ed il danneggiato deve provare solo l’entità del lucro cessante, a meno che il soggetto autore della violazione non dimostri l’insussistenza di danni risarcibili nel caso concreto. Tale pregiudizio è liquidabile in via forfettaria con il criterio del prezzo del consenso, che costituisce soglia minima di ristoro.

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