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La Corte di Giustizia dell’Unione Europea si è recentemente pronunciata nel caso C-401/19, un ricorso di annullamento introdotto dalla Polonia nel 2019 (art. 263 TFUE) definendo importanti principi sul regime di responsabilità degli Internet Service Provider.

Tale pronuncia è stata a lungo attesa sia dai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online che dagli Stati Membri, in quanto vertente su uno degli articoli più critici (e criticati) della direttiva (UE) 2019/790 (la cd. “Direttiva Copyright“): l’articolo 17.

In estrema sintesi, l’articolo 17 della Direttiva Copyright fornisce ai prestatori di servizi di condivisione di contenuti online una sorta di guida, indicando, inter alia, le attività che questi ultimi sono tenuti a compiere per prevenire e/o reprimere le violazioni di diritto d’autore che avvengano online. Come noto, nel corso dei lavori preparatori alla Direttiva, l’articolo 17 è stato oggetto di un’accesa discussione tra coloro che sottolineavano la necessità di rafforzare la posizione dei titolari dei diritti, che in qualche modo hanno “subito” per un certo tempo gli effetti di una normativa non propriamente al passo con l’evoluzione tecnologica, e chi, invece, temeva che un’eccessiva tutela dei diritti di proprietà intellettuale mettesse in secondo piano la salvaguardia dei diritti fondamentali, e in particolare la libertà di espressione.

Come prevedibile, non è bastata l’adozione della Direttiva per spegnere questo dibattito. Nel maggio 2019, infatti, il governo polacco ha proposto un ricorso dinanzi alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiedendo l’annullamento, in tutto o in parte, dell’articolo 17 della Direttiva Copyright. La vicenda si è conclusa lo scorso 26 aprile 2022, quando la Corte di Giustizia ha confermato la validità dell’articolo 17, nonché la sua piena compatibilità con il diritto alla libertà di espressione, ritenendo che lo stesso fornisce adeguate garanzie ai diritti fondamentali degli utenti.

Ma procediamo con ordine, esaminando premesse e conseguenze di questa (non imprevedibile) decisione.

  • Il regime di responsabilità: un riassunto degli episodi precedenti

Prima dell’adozione della Direttiva Copyright, il regime di responsabilità degli Internet Service Providers era disciplinato solo dalla direttiva 2000/31/CE (“Direttiva e-Commerce“), che escludeva un obbligo generale di sorveglianza. In questo contesto, quindi, la Direttiva ha segnano un vero e proprio “cambio di passo” in materia di responsabilità, quantomeno per dei prestatori di servizi di condivisione di contenuti online.

In primo luogo, infatti, l’articolo 17 è volto a disciplinare nel dettaglio la responsabilità dei prestatori di servizi di condivisione di contenuti online (di seguito, i “Prestatori di Servizi“), definiti come “prestatori di servizi della società dell’informazione il cui scopo principale o uno dei principali scopi è quello di memorizzare e dare accesso al pubblico a grandi quantità di opere protette dal diritto d’autore o altri materiali protetti caricati dai [loro] utenti, che [essi] organizzano e promuovono a scopo di lucro“. La Direttiva Copyright stabilisce, altresì, che per comunicare al pubblico o mettere a disposizione del pubblico opere protette, i Prestatori di Servizi sono tenuti ad ottenere un’autorizzazione dai titolari dei diritti (ad esempio, mediante la conclusione di un accordo di licenza). Nel caso in cui non venga concessa alcuna autorizzazione, l’articolo 17 stabilisce che i Prestatori di Servizi possono essere esonerati dalla responsabilità solo qualora dimostrino:

  1. di aver compiuto i massimi sforzi per ottenere un’autorizzazione, e
  2. di aver compiuto, secondo elevati standard di diligenza professionale, i massimi sforzi per assicurare che non siano disponibili opere e altri materiali specifici per i quali abbiano ricevuto le informazioni dai titolari dei diritti; e in ogni caso,
  3. di aver agito tempestivamente, dopo aver ricevuto una segnalazione sufficientemente motivata dai titolari dei diritti, per disabilitare l’accesso o rimuovere dai loro siti web le opere e aver compiuto i massimi sforzi per impedirne il caricamento in futuro.
  • Il caso C-401/19

Come si è detto, subito dopo l’adozione della Direttiva Copyright, la Repubblica di Polonia proponeva ricorso dinanzi alla Corte Giustizia, chiedendo di annullare l’articolo 17, paragrafo 4, lettera b) (massimi sforzi per garantire l’indisponibilità dei contenuti illeciti) e lettera c), in fine (massimi sforzi per impedire il futuro caricamento di contenuti illeciti) e, in subordine, qualora la Corte dovesse ritenere che tali disposizioni non possano essere separate dalle altre disposizioni dell’articolo 17 senza alterarne la sostanza, di annullare integralmente tale articolo 17.

Tale richiesta si basava sull’assunto che, secondo la ricorrente, l’attuale testo dell’articolo 17 violerebbe il diritto alla libertà di espressione e di informazione, garantito dall’articolo 11 della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea.

In altri termini, la Polonia sosteneva che al fine di essere esonerati da qualsiasi responsabilità per aver dato al pubblico l’accesso a contenuti protetti caricati dagli utenti, i Prestatori di Servizi sono tenuti ad effettuare un controllo preventivo di tutti i contenuti che i loro utenti desiderano caricare. Per soddisfare questo requisito, i Prestatori di non potrebbero far altro che utilizzare strumenti informatici che consentano una filtrazione automatica dei contenuti, precedente rispetto alla diffusione al pubblico. Tale approccio, tuttavia, aprirebbe la strada ad errori e a conseguenti violazioni dei diritti fondamentali: tali tecnologie, infatti, possono essere fallici e non possono escludere il rischio che siano bloccati contenuti leciti, nonché quello che l’illiceità (e conseguente blocco) dei contenuti sia determinato in modo automatico da algoritmi. Ne discenderebbe, quindi, secondo la Repubblica di Polonia, una limitazione potenzialmente grave e ingiustificata del diritto alla libertà di espressione.

Nel pronunciarsi sulla questione, la Corte ha dapprima confermato la conclusione dell’Avvocato Generale, affermando che le lettere contestate dell’articolo 17(4) non sono separabili dal resto dell’articolo e che, se del caso, l’articolo potrebbe essere annullato solo in toto e non parzialmente.

Quanto al merito, la Corte ha riconosciuto che le attività richieste ai Prestatori di Servizi ai sensi dell’articolo 17 vanno ben oltre l’obbligo di agire rapidamente per porre fine alle violazioni (come veniva richiesto, invece, dalla direttiva e-Commerce) e che, in buona sostanza, ai Prestatori di Servizi è richiesto l’utilizzo di strumenti di riconoscimento e filtraggio automatico. Ne discende, secondo la stessa Corte, che “il regime specifico di responsabilità, introdotto all’articolo 17, paragrafo 4, della direttiva 2019/790 per i fornitori di servizi di condivisione di contenuti online, comporta una limitazione dell’esercizio del diritto alla libertà di espressione e d’informazione degli utenti di tali servizi di condivisione, garantito all’articolo 11 della Carta“.

Ciononostante, la Corte ricorda che la libertà di espressione può essere legittimamente limitata a determinate condizioni (cfr. articolo 52(1) della Carta) e che, al fine di valutare se la limitazione della libertà di espressione derivante dall’articolo 17(4) sia giustificata, detto articolo non può essere considerato isolatamente, ma occorre esaminare il nuovo regime di responsabilità nel suo complesso. Così, la Corte precisa che l’analisi deve tener conto anche dei punti da 17(7) a 17(10) della Direttiva Copyright e, più in generale, della ratio perseguita dall’istituzione di tale regime di responsabilità, vale a dire la protezione dei titolari dei diritti d’autore.

Alla luce di tali considerazioni, la Corte ha concluso che il regime di responsabilità di cui all’articolo 17 prevede diverse misure che proteggono adeguatamente i diritti fondamentali degli utenti. In particolare:

  • il legislatore UE ha già stabilito nella giurisprudenza precedente (cfr. par. 67 della decisione) un limite chiaro e preciso agli strumenti che possono essere adottati o richiesti nell’attuazione degli obblighi di cui all’articolo 17(4) (ad esempio, un sistema di filtraggio che rischi di non distinguere adeguatamente tra un contenuto illecito e un contenuto lecito sarebbe incompatibile con il diritto alla libertà di espressione);
  • l’articolo 17(7)(2) impone agli Stati Membri di includere nella normativa nazionale diverse eccezioni al fine di permettere che gli utenti siano autorizzati a caricare e a mettere a disposizione contenuti generati dagli stessi utenti per le finalità di citazione, critica, rassegna, caricatura, parodia o pastiche;
  • l’obbligo di prevenire automaticamente le future violazioni del diritto d’autore trova applicazione a patto che i titolari dei diritti abbiano fornito le informazioni necessarie ai Prestatori di Servizi;
  • un obbligo generale di monitoraggio deve essere escluso, in modo che il Prestatore di Servizi non sia tenuto a “prevenire il caricamento e la messa a disposizione del pubblico di contenuti la constatazione della cui illeceità richiederebbe, da parte [sua], una valutazione autonoma del contenuto alla luce delle informazioni fornite dai titolari di diritti“;
  • l’articolo 17 chiarisce che le leggi nazionali devono includere la possibilità per gli utenti di presentare un ricorso contro una decisione di blocco da parte del Prestatore di Servizi.

Inoltre, con questa sentenza la Corte di Giustizia ha esaminato anche una delle questioni più controverse nel dibattito che circonda l’attuazione delle garanzie per i diritti degli utenti, vale a dire la legittimità dei meccanismi di blocco preventivo. A tal proposito, la Corte ha chiarito che “l’articolo 17, paragrafo 9, commi primo e secondo, della direttiva 2019/790 introduce varie garanzie procedurali, che si aggiungono a quelle previste all’articolo 17, paragrafi 7 e 8, di tale direttiva e che tutelano il diritto alla libertà di espressione e d’informazione degli utenti di servizi di condivisione di contenuti online qualora, nonostante le garanzie poste da queste ultime disposizioni, i fornitori di tali servizi disabilitino comunque, per errore o senza alcun fondamento, contenuti leciti”.

In altri termini, l’obbligo di proteggere i diritti degli utenti dopo che i loro contenuti sono stati bloccati (ai sensi dell’articolo 17(9)) non sostituisce l’obbligo di tutelare gli utenti nel momento in cui caricano contenuti leciti (ai sensi dell’articolo 17(7)). Al contrario, tali obblighi devono intendersi come cumulativi.

  • Implicazioni

La pronuncia in commento, sebbene in linea con la precedente giurisprudenza della Corte di Giustizia, fornisce senz’altro importanti indicazioni agli Stati Membri che hanno già trasposto la direttiva nei propri ordinamenti nazionali, ma anche a quelli che non l’hanno ancora recepita.

In particolare, la pronuncia della Corte di Giustizia impone a quegli Stati Membri che abbiano incluso nell’atto di recepimento previsioni non coerenti con quanto chiarito dalla Corte di modificarle tempestivamente (ad esempio, gli Stati Membri che abbiano attuato l’articolo 17 in un modo che non impedisce il blocco dei contenuti legittimi saranno costretti a modificare tali disposizioni).

Alla luce di quanto precede e dato l’impatto di questa sentenza sul recepimento della Direttiva Copyright nel diritto nazionale, ci aspettiamo che nei prossimi anni sorgano ulteriori dubbi e che la Corte di Giustizia sia chiamata ad affrontare nuovamente la questione della compatibilità della Direttiva con i diritti fondamentali.

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