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Con l’ordinanza n. 22625 del 19 luglio 2022, la Corte di Cassazione si è pronunciata nell’ambito di un ricorso riguardante una fattispecie di concorrenza sleale per mezzo di storno di dipendenti e utilizzazione di know-how e informazioni riservate di un’azienda concorrente.

La vicenda oggetto del ricorso ha avuto origine nell’ottobre 2012, quando una società operante nell’ambito della formazione ha proposto ricorso d’urgenza ex art. 700 c.p.c. innanzi al Tribunale di Torino, lamentando il compimento di condotte illecite, anticoncorrenziali e contraffattorie da parte di una società concorrente. In particolare, le condotte contestate erano di indebita sottrazione di propri dipendenti, imitazione pedissequa dei propri materiali informativi e pubblicitari, compimento di atti di concorrenza sleale e di utilizzazione di know-how e informazioni riservate, attività confusorie e di agganciamento, accompagnate dalla contraffazione di un proprio marchio registrato.

La ricorrente aveva sostenuto di aver subito gravi danni conseguenti a tali attività, essendosi verificata una sensibile riduzione delle iscrizioni ai propri corsi di formazione in misura pari alla metà, con il conseguente diritto al risarcimento dei danni per lucro cessante, anche per la vanificazione dei propri investimenti pubblicitari, oltre che per il pregiudizio alla propria immagine.

Facendo ampio ricorso alla giurisprudenza precedente (Cass., n. 3865/20Cass., n. 31203/17, Cass., n. 20228/13, Cass., n. 9386/12), la Corte di Cassazione ha ritenuto che per la configurabilità di atti di concorrenza sleale contrari ai principi della correttezza professionale, commessi per mezzo dello storno di dipendenti e/o collaboratori, è necessario che “l’attività distruttiva delle risorse di personale dell’imprenditore sia stata posta in essere dal concorrente con modalità tali da non potersi giustificare, in rapporto ai principi di correttezza professionale, se non supponendo nell’autore l’intento di recare pregiudizio all’organizzazione ed alla struttura produttiva del concorrente, disgregando in modo traumatico l’efficienza dell’organizzazione aziendale del competitore e procurandosi un vantaggio competitivo indebito”.

Affinché possa ritenersi integrata una condotta di concorrenza sleale, la Corte ha ritenuto rilevante considerare i seguenti fattori: (i) le modalità del passaggio dei dipendenti e collaboratori dall’una all’altra impresa che, ha specificato, deve avvenire in modo diretto, ancorché eventualmente dissimulato, affinché possa ritenersi configurata un’attività di storno; (ii) la quantità e la qualità del personale stornato; (iii) la posizione ricoperta dal personale stornato nell’ambito dell’organigramma dell’impresa concorrente; (iv) le difficoltà dovute alla sua sostituzione; (v) i metodi utilizzato al fine di indurre i dipendenti e/o i collaboratori a passare all’impresa concorrente.

Pertanto, “lo storno dei dipendenti di impresa concorrente costituisce atto di concorrenza sleale allorché sia perseguito il risultato di crearsi un vantaggio competitivo a danno di quest’ultima tramite una strategia diretta ad acquisire uno staff costituito da soggetti pratici del medesimo sistema di lavoro entro una zona determinata, svuotando l’organizzazione concorrente di sue specifiche possibilità operative mediante sottrazione del modus operandi dei propri dipendenti, delle conoscenze burocratiche e di mercato da essi acquisite, nonché dell’immagine in sé di operatori di un certo settore. Ne consegue che, al fine di individuare tale animus nocendi, consistente nella descritta volontà di appropriarsi, attraverso un gruppo di dipendenti, del metodo di lavoro e dell’ambito operativo dell’impresa concorrente, nessun rilievo assume l’attività di convincimento svolta dalla parte stornante per indurre alla trasmigrazione il personale di quella”.

Inoltre, costituisce concorrenza sleale ex art. 2598, n. 3 c.c. “l’assunzione di dipendenti altrui o la ricerca della loro collaborazione non tanto per la capacità dei medesimi, ma per utilizzazione, altrimenti impossibile o vietata, delle conoscenze tecniche usate presso altra impresa, compiuta con animus nocendi, ossia con un atto direttamente ed immediatamente rivolto ad impedire al concorrente di continuare a competere, attesa l’esclusività di quelle nozioni tecniche e delle relative professionalità che le rendono praticabili, così da saltare il costo dell’investimento in ricerca ed in esperienza, da privare il concorrente della sua ricerca e della sua esperienza, e da alterare significativamente la correttezza della competizione”.

Nel caso concreto, tuttavia, la Corte d’Appello di Torino aveva escluso che fosse stato posto in essere dalla società resistente il lamentato storno, e che dunque fosse stata integrata una condotta di concorrenza sleale, argomentando che non era corretto comprendere tra i soggetti stornati i liberi professionisti che prestavano la loro collaborazione nei corsi, posizione che non impediva loro di svolgere analoghe attività per società operanti nel medesimo settore. La medesima argomentazione è stata utilizzata anche per escludere lo storno con riguardo ai consulenti legali liberi professionisti o ai consiglieri d’amministrazione. Inoltre, per la Corte d’Appello, l’illecito contestato era da escludere anche perché non si era verificato l’effetto di svuotamento e di pregiudizio per l’operatività della ricorrente. Secondo la Corte territoriale difettava altresì la prova della consapevolezza del soggetto agente circa l’idoneità dell’atto a danneggiare, poiché le conoscenze e la professionalità dei lavoratori trasmigrati, pur se di pregio, non presentavano carattere di esclusività tali da rendere tali dipendenti assolutamente essenziali, mancando peraltro la prova della volontà della società resistente di impedire alla concorrente di continuare a competere. Oltretutto, erano emerse prove relative alla spontaneità del trasferimento dei dipendenti della società ricorrente a causa della diffusa insoddisfazione presente in azienda, e alla mancanza di capacità individualizzanti nei dipendenti e collaboratori interessati dal presunto storno.

La Corte di Cassazione ha dunque confermato la posizione precedentemente assunta dalla Corte d’Appello di Torino, ritenendo che l’esame complessivo dei vari elementi probatori acquisiti non potesse portare all’opposto convincimento della sussistenza degli illeciti lamentati da parte della società ricorrente.

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