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Uno schema di decreto prevede il concetto di responsabilità estesa del produttore con notevoli impatti sul settore dell moda.

Il 16 febbraio scorso il Ministero dell’Ambiente e della Sicurezza Energetica (MASE) ha avviato una procedura di consultazione pubblica per lo schema di decreto finalizzato a recepire, nel settore della moda in Italia, il concetto di Responsabilità Estesa del Produttore (o “Extended Producer Responsibility”, da qui l’acronimo “EPR”) precedentemente introdotto dalla Direttiva (UE) 2018/851.

In particolare, lo schema di decreto è stato predisposto dal MASE di concerto con il Ministro delle Imprese e del “Made in Italy” (MIMIT) al fine di prevedere specifici obblighi in capo ai produttori della filiera tessile in materia di progettazione, produzione, smaltimento e riciclo dei prodotti tessili utilizzati, introducendo quindi una responsabilità estesa del produttore.

La consultazione – che termina il prossimo 3 marzo – ha lo scopo di coinvolgere “gli stakeholder principali” nell’adozione di una normativa coerente con l’attuale settore della moda. Infatti, nella sua nota del 2 febbraio scorso, il MASE ha chiarito che intende creare un sistema che “valorizzi l’eco-innovazione” e affermi “la centralità di chi produce nel rispetto della legge e dell’ambiente, fermando quegli smaltimenti incontrollati di rifiuti tessili che nascondono una filiera dell’illegalità a danno dell’imprenditoria onesta”.

In particolare, l’EPR è un principio introdotto dalla Direttiva (UE) 2018/851 secondo il quale i produttori di beni commercializzati nell’Unione Europea sono tenuti a contribuire alla gestione dei rifiuti derivanti dai loro stessi prodotti, in modo da promuovere una gestione sostenibile delle risorse ambientali. La Direttiva (UE) 2018/851 stabilisce una serie di obblighi per i produttori della filiera del tessile, tra cui:

  • la responsabilità estesa del produttore al fine di rendere le case di moda responsabili per la gestione dei capi e accessori giunti al termine del loro ciclo di vita;
  • l’adozione di misure atte a prevenire la produzione di rifiuti derivanti dai propri prodotti, anche attraverso la progettazione di prodotti a basso impatto ambientale e la riduzione della quantità di materiali (inquinanti) utilizzati;
  • l’implementazione di misure finalizzate alla riduzione della quantità di rifiuti prodotti dai brand stessi, anche tramite la promozione del riutilizzo dei prodotti e dei materiali impiegati;
  • lo sviluppo di misure per il riciclaggio dei prodotti a fine vita tramite la progettazione di prodotti facilmente riciclabili e la promozione della raccolta differenziata; e
  • la collaborazione con le autorità competenti per tutti i brand di moda al fine di garantire l’effettiva attuazione di tali disposizioni.

In pratica, i produttori devono garantire che i loro prodotti siano smaltiti in modo corretto, anche dai consumatori finali, al fine di minimizzare l’impatto ambientale, sia durante il ciclo di vita del prodotto che al termine di tale ciclo quando il prodotto diventa un rifiuto.

L’EPR, tuttavia, non è una novità del mondo della moda. Infatti, tale principio si applica a diverse categorie di prodotti (ad esempio, apparecchiature elettroniche, pneumatici, batterie e accumulatori, imballaggi e prodotti farmaceutici) e in altri settori sono già in vigore normative atte a tutelare l’ambiente nello smaltimento dei rifiuti derivanti dai prodotti in commercio.

L’industria della moda, invece, è ancora molto lontana. Infatti, secondo un rapporto dell’Organizzazione delle Nazioni Unite per lo sviluppo industriale, il settore della moda è responsabile del 10% delle emissioni globali di carbonio e del 20% delle acque reflue industriali, nonché produce circa il 20% dei rifiuti globali, classificandosi come uno dei settori più inquinanti al mondo.

La maggior parte dei brand si concentra sulla produzione di capi e accessori all’ultima moda, senza preoccuparsi della fine della vita del prodotto stesso. Ma negli ultimi anni sembra che anche la moda stia prendendo una svolta eco-friendly. Alcuni brand del cosiddetto “fast fashion”, come Patagonia, H&M e Zara, hanno iniziato ad adottare specifiche misure per ridurre l’impatto ambientale dei loro prodotti e incentivare i consumatori alla raccolta e al riciclaggio dei capi che non indossano più. In alcuni paesi, come Francia, Germania e Regno Unito, invece sono già stati introdotti nuovi obblighi normativi per incentivare i produttori della filiera del tessile a prendersi cura dei loro prodotti una volta che questi diventano rifiuti. La Francia è, infatti, l’unico paese in Europa a detenere il primato di primo paese al mondo ad essersi dotato di una normativa anti-spreco che vieta ai brand di continuare con la pessima abitudine di distruggere gli stock di invenduto. Anche il Regno Unito ha deciso di stare al passo con i tempi e sta valutando l’adozione di misure stringenti contro il “fast fashion”. Le soluzioni al vaglio del legislatore inglese sono l’adozione di regimi fiscali differenti per chi utilizza materiali riciclati o si impegna nella creazione di prodotti eco.

E l’Italia? Con lo schema di decreto di recepimento della Direttiva (UE) 2018/851 annunciato dal MASE cercherà di mettersi al passo con gli altri paesi.

Il MASE ha, infatti, dichiarato che tra gli obiettivi centrali del decreto c’è la sostenibilità dei prodotti, nonché “una progettazione degli stessi e dei loro componenti volta a ridurre gli impatti ambientali e la generazione dei rifiuti”. Per tale ragione, viene chiesto ai brand di sviluppare, produrre, commercializzare prodotti “adatti al riutilizzo e alla riparazione, contenenti materiali riciclati, tecnicamente durevoli e facilmente riparabili”, internalizzando “i principi e i modelli economici improntati alla circolarità”.

In particolare, l’impiego di fibre tessili e materiali naturali biocompatibili, l’eliminazione di componenti e sostanze pericolose anche con riferimento alle microplastiche rilasciate nell’ambiente, la riduzione di difetti di qualità che portino il consumatore a buttare i prodotti, ma ancora lo sviluppo e l’utilizzo di tecnologie avanzate per la cernita di fibre provenienti dal trattamento dei rifiuti e per il riciclaggio, nonché l’impiego di tecniche di mischia delle fibre e di tessuti che favoriscano adattabilità a usi multipli e riparabilità, sono solo alcune delle misure di “eco-progettazione” citate nello schema di decreto. Anche l’adozione di un sistema di “etichettatura digitale” che descriva caratteristiche e composizione fibrosa, indicando parti non tessili di origine animale, può certamente contribuire a “favorire l’innovazione orientata verso modelli di economia circolare”.

Per adempiere ai propri obblighi, i brand possono aderire a un sistema di gestione dei rifiuti “in forma collettiva o individuale”, che prevede altresì il finanziamento di attività di raccolta, smaltimento e recupero dei rifiuti derivanti dai loro prodotti al fine di realizzare una “capillare rete di raccolta de rifiuti tessili sul tutto il territorio nazionale” anche in accordo con gli Enti del settore. In questo modo, si promuove un approccio integrato alla gestione dei rifiuti, che coinvolge tutti gli attori del ciclo di vita del prodotto, dalla produzione alla gestione finale dei rifiuti.

L’obiettivo della nuova normativa sull’EPR è, infatti, quello di spingere i brand della moda a pensare prodotti più sostenibili, adottando materiali ecologici e riducendo gli sprechi, nonché a promuovere un’economia circolare, incentivando la raccolta differenziata e il riciclo dei loro prodotti, ad esempio attraverso la creazione di programmi di ritiro e di donazione.

L’adozione di un’economia circolare nel settore della moda, in cui i materiali e i prodotti vengono riparati, riciclati o riutilizzati, riducendo la dipendenza dalle risorse naturali, può infatti avere solamente un effetto benefico sia sul nostro pianeta che sul settore stesso, contribuendo alla riduzione dell’impatto ambientale del fashion e alla promozione di una moda più sostenibile

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