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Lo scorso febbraio, la Corte costituzionale ha deciso sul ricorso per questione di legittimità costituzionale circa le denominazioni comunali.

Il ricorso sulla legittimità delle denominazioni comunali

Il 25 maggio 2022, il Presidente del Consiglio dei ministri ha promosso una questione di legittimità costituzionale nei confronti degli artt. 1, commi 1 e 3, 2, 3 e 4 della Legge regionale siciliana n. 3 del 2022, che disciplinano le denominazioni comunali (De.Co.)

Nel dettaglio, tali norme istituiscono il registro regionale telematico dei comuni, utilizzato quale strumento per la registrazione, la salvaguardia e la tutela, dei prodotti a denominazione comunale, riferibili solitamente a produzioni agroalimentari ed enogastronomiche territoriali.

L’art. 1, co. 3 della Legge reg. n. 3/2022, regola tali denominazioni e la conseguente registrazione facendone oggetto di un procedimento basato sulla verifica della conformità del prodotto ad un disciplinare (art. 3, comma 2, lettere c e d). Secondo il ricorrente, queste previsioni sarebbero in contrasto con plurimi parametri costituzionali.

Difatti, il Presidente, con il primo motivo del ricorso, contesta la violazione dell’art. 117, comma 1 della Costituzione, poiché tali disposizioni regionali, sarebbero state adottate senza tenere conto dei vincoli derivanti dall’ordinamento europeo. Secondo il ricorrente, la Legge regionale siciliana avrebbe istituito un sistema di identificazione, registrazione e protezione di prodotti qualificati dalla loro origine territoriale, sovrapponibile a quello disciplinato dal diritto dell’Unione europea. In particolare, il Regolamento n. 1151/2012/UE e le analoghe disposizioni ai Regolamenti n. 1308/2013/UE e n. 787/2019/UE, recepiti anche nell’ordinamento italiano, già disciplinano i regimi previsti per la qualità dei prodotti agricoli e alimentari.

Pertanto, il regime europeo, istituito dai sopracitati regolamenti, sarebbe stato definito dal ricorrente come esclusivo e dotato di efficacia diretta e immediata, ai sensi dell’art. 288 TFUE. Per questo motivo, la Legge regionale non avrebbe potuto replicarne i contenuti e sommarsi alla normativa europea, ostacolando così quest’ultima.

Infine, con il secondo motivo del ricorso, il Presidente del Consiglio contesta ulteriormente le disposizioni regionali poiché queste violerebbero anche l’art. 117, comma 2, lett. e), Cost., visto il loro atteggiamento intrinsecamente concorrenziale con le fonti europee.

La sentenza della Corte Costituzionale

La Corte costituzionale, con la sentenza n. 73 del 2023 ha rigettato il ricorso, dichiarando le questioni di legittimità costituzionali inammissibili e infondate. In particolare, è stata dichiarata l’inammissibilità delle questioni, poiché la fonte normativa internazionale per le denominazioni di origine, ossia l’Accordo di Lisbona, modificato e integrato dall’Atto di Ginevra, non era stata indicata nella delibera di autorizzazione all’impugnazione. Mentre per quanto riguarda le altre questioni di legittimità costituzionale, queste sono state dichiarate infondate. Sul punto, la Corte ha precisato che le denominazioni comunali De.Co., non integrerebbero né un marchio, né alcun segno identificativo di protezione del prodotto, ma sarebbero invece, qualificabili come indicazioni geografiche semplici.

Secondo i giudici, l’impugnata Legge regionale si limiterebbe a qualificare le denominazioni comunali (De.Co.) come attestazioni di identità territoriale e, quindi senza certificare la qualità dei prodotti. Pertanto, le De.Co, purché non qualificabili come marchi di qualità o di certificazione, sarebbero comunque volte a individuare l’origine e il legame storico culturale di un determinato prodotto con il territorio comunale.

Poiché si tratta di una attestazione territoriale, questa non attribuisce al suo titolare alcun diritto di privativa, o di esclusiva, che possa far valere nei confronti di terzi, che producono lo stesso prodotto tipico o tradizionale. Secondo quanto previsto dalla Legge regionale, l’esibizione del logo del registro De.Co., in conformità alle regole rimesse ad un decreto dell’Assessore regionale per l’agricoltura, attesterebbe semplicemente l’origine e il legame storico culturale di un certo prodotto con il territorio comunale, ma in nessun modo, il titolare acquisirebbe un diritto per un “marchio” locale.

Avendo chiarito che la denominazione comunale De.Co. tratta di una mera “attestazione di identità territoriale”, questa allora rientrerebbe pienamente nella nozione di indicazione geografica semplice, la quale secondo quanto previsto dalla giurisprudenza della Corte di giustizia nella sentenza Warsteiner, non interferisce con le denominazioni registrate a livello europeo.

Pertanto, le De.Co. disciplinate dalle disposizioni regionali siciliane, non riconoscono una tutela specifica ai prodotti connotati da tale denominazione, ma costituiscono un atto meramente ricognitivo della presenza storicamente radicata di un prodotto tipico, riferito alle tradizioni locali. Il collegamento con il territorio è esclusivamente volto a testimoniare la particolarità e la tradizione del prodotto, ma tale indicazione non rifletterebbe sulla loro qualità. Logicamente, è stato sancito che anche gli atti istitutivi delle De.Co., come la delibera del Consiglio comunale, il regolamento comunale e il disciplinare di produzione, recanti i criteri per il riconoscimento di tali denominazioni De.Co., non potranno contenere sistemi di verifica sulla qualità delle produzioni locali.

In conclusione, la Corte costituzionale ha riconosciutola legittimità delle denominazioni comunali e dunque ritenendole non sovrapponibili alle fonti europee, poiché a differenza di queste ultime, le De.Co. non farebbero alcun riferimento alla qualità dei prodotti.

Su un simile argomento, può essere interessante l’articolo “L’EUIPO sulla legittimazione attiva in tema di DOP”.

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