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Nell’industria della moda contemporanea, la transizione verso una mentalità “fur free” ha acquisito notevole importanza, sono infatti sempre di più i brand che abbandonano l’uso di pellicce animali. Un aspetto altrettanto significativo di questa tendenza è l’adozione, da parte di molti brand, di “fur byproducts,” sottolineando un approccio sostenibile e cruelty-free. In questo articolo, esamineremo l’importanza di adottare un’adeguata comunicazione al fine di non ingannare i consumatori, mettendo in evidenza come la moda possa abbracciare la sostenibilità e l’etica senza compromettere lo stile e la qualità.

Un movimento che ha rapidamente guadagnato terreno negli ultimi anni è la Fur Free Alliance, un’organizzazione internazionale che promuove la moda senza l’utilizzo di pelliccia animale o, almeno, di pelli derivanti da allevamenti adibiti a tali scopi.

L’obiettivo primario dell’alleanza è porre un freno all’uso delle pellicce animali nell’industria della moda, in risposta alle crescenti preoccupazioni per il benessere degli animali e l’impatto ambientale dell’industria delle pellicce. Questo consorzio, composto da organizzazioni come la Humane Society of the United States, la Protection des Animaux en Suisse, la Four Paws, la LAV (Lega Anti-Vivisezione) e molte altre, ha dato vita a un movimento di portata globale, impegnato nella promozione di una moda responsabile e compassionevole.

Per raggiungere questa ambiziosa meta, l’organizzazione adotta diverse strategie chiave: si impegna a educare il pubblico sulle condizioni spesso crudeli degli animali negli allevamenti di pellicce e sugli impatti ambientali negativi causati da questa industria; collabora attivamente con case di moda, stilisti, celebrità e influencer, incoraggiandoli a rinunciare all’uso delle pellicce nelle loro collezioni e a diventare sostenitori di una moda senza pelliccia; esercita pressioni sui governi e le istituzioni affinché adottino leggi e regolamenti che vietino l’allevamento e l’uso di animali per la produzione di pellicce; infine, monitora e denuncia le pratiche crudeli nell’industria delle pellicce, fornendo prove tangibili per sostenere la sua causa e spingere verso un cambiamento significativo.

Ciò che viene, invece, accettato da parte della Fur Free Alliance è l’impiego di pellicce provenienti dall’industria della catena di approvvigionamento alimentare. In tal modo, la pelliccia stessa diviene un sottoprodotto dell’industria, evitando il suo smaltimento in discarica e garantendo la massimizzazione del suo utilizzo, rendendolo anche più ecologico. Si tratta dunque di prodotti ottenuti dalla lavorazione di animali destinati al consumo alimentare, come l’agnello e il visone. Gli esempi includono il cuoio di agnello, la lana di visone e la pelle di coniglio.

Tutte queste attività hanno attirato fin da subito numerosi brand internazionali nel settore della moda. Molti stanno progressivamente abbandonando l’uso di pellicce animali, altri, invece, stanno anche esplorando nuove possibilità attraverso l’utilizzo creativo dei “fur byproducts“. L’utilizzo di fur byproducts offre numerosi vantaggi. Innanzitutto, riduce gli sprechi nell’industria alimentare e della moda, contribuendo così alla sostenibilità. In secondo luogo, permette ai brand di continuare a creare prodotti di alta qualità. Infine, questa innovazione dimostra che la moda può essere etica e sostenibile senza compromettere lo stile.

Indubbiamente, l’iniziativa si presenta come una lodevole manifestazione di impegno etico da parte delle case di moda. Tuttavia, è di fondamentale importanza che questi brand dimostrino altrettanta maestria nell’efficace comunicazione di tale impegno ai consumatori e, specialmente, nel veicolare correttamente le informazioni relative alla tipologia di pelliccia che intendono utilizzare nei loro prodotti.

Come noto, secondo i requisiti di etichettatura dell’Unione Europea, i prodotti tessili possono essere messi sul mercato comunitario solo a condizione che siano etichettati, contrassegnati o accompagnati da documenti commerciali conformi al Regolamento (UE) 1007/2011.

In particolare, l’Articolo 12 del Regolamento (UE) 1007/2011 (“Prodotti tessili contenenti parti non tessili di origine animale“) prevede che “(1) La presenza di parti non tessili di origine animale nei prodotti tessili deve essere indicata utilizzando la frase ‘Contiene parti non tessili di origine animale’ sull’etichettatura o il contrassegno dei prodotti contenenti tali parti ogni volta che siano resi disponibili sul mercato. (2) L’etichettatura o il contrassegno non devono essere fuorvianti e devono essere effettuati in modo che il consumatore possa comprenderlo facilmente“.

Analoghe disposizioni sono previste dalla normativa italiana. Ai sensi dell’articolo 4(1) del Decreto Legislativo italiano n. 68 del 9 giugno 2020, “Il produttore o l’importatore che utilizza i termini elencati nell’Articolo 2(1) [che sono: pelle, pelle conciata, pelliccia e fibre di cuoio rigenerato] per materiali o articoli da essi realizzati è tenuto a etichettarli o contrassegnarli per identificare la loro composizione, secondo le disposizioni di questo decreto“. In particolare, l’etichettatura e il contrassegno dei materiali e degli articoli menzionati nel paragrafo 1 devono essere durevoli, facilmente leggibili, visibili e accessibili. Nel caso delle etichette, devono anche essere saldamente applicate attraverso un supporto collegato (cfr. Articolo 4(4) del Decreto Legislativo italiano n. 68 del 9 giugno 2020).

In aggiunta a quanto sopra, in merito alla comunicazione di tali informazioni, il Codice del Consumo italiano stabilisce che, tra le informazioni obbligatorie da fornire sull’etichetta dei prodotti commercializzati, debba esserci l’indicazione “dei materiali utilizzati e dei metodi di lavorazione quando questi sono determinanti per la qualità o le caratteristiche del prodotto” (cfr. Articolo 6(1)(e) del Codice del Consumo italiano).

Le disposizioni citate mirano chiaramente a garantire una comunicazione adeguata, affinché i consumatori ricevano tutte le informazioni essenziali per compiere una scelta informata durante l’acquisto di un prodotto.

È dunque necessario che le case di moda aderenti a pratiche di utilizzo di pellicce animali, ancorché provenienti della catena di approvvigionamento alimentare, adottino una comunicazione trasparente e dichiarino apertamente la tipologia di pelliccia impiegata. Non è sufficiente sostenere di non utilizzare pellicce animali unicamente sulla base della non partecipazione a processi di allevamento di animali appositamente destinati alla produzione di pellicce. Al contrario, è sempre bene esplicitare che si tratta comunque di pelle animale, derivante dagli scarti del mercato alimentare, evitando così ogni tipo ambiguità.

Da un altro punto di vista, informare il pubblico di questa innovativa pratica e dell’adesione delle case di moda a iniziative come quella della Fur Free Alliance, finalizzate alla tutela degli animali, non solo proietta positivamente l’immagine delle aziende ma attrae anche una clientela sempre più orientata verso valori etici. In un mercato in costante evoluzione, la sensibilità verso il benessere degli animali e l’etica e la sostenibilità nella produzione rappresenta un vantaggio competitivo che non può essere trascurato. Pertanto, la comunicazione trasparente nel veicolare messaggi ai consumatori e l’adesione a tali iniziative non solo si allineano con le disposizioni nazionali e comunitarie vigenti, ma servono anche come strumenti efficaci per attirare un pubblico consapevole ed eticamente orientato.

La tendenza dei brand nel settore fashion a diventare fur free e a utilizzare fur byproducts rappresenta dunque un passo importante verso una moda più etica, sostenibile e cruelty-free. Questa evoluzione riflette un cambiamento di mentalità nell’industria della moda, dove l’etica e la sostenibilità diventano sempre più importanti. Una comunicazione chiara e trasparente di queste iniziative è essenziale per guidare il cambiamento e per consentire ai consumatori di fare scelte più consapevoli quando si tratta di moda. Questa tendenza sottolinea come la moda possa essere un’espressione artistica che abbraccia la responsabilità sociale e ambientale, mentre continua a ispirare e innovare.

Su un argomento simile si veda l’articolo “Milan Fashion Week and Fashion Law Trends: il fenomeno dell’upcycling tra moda sostenibile e tutela del marchio“.

Autrici: Carolina Battistella e Rebecca Rossi

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