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La Corte d’Appello di Milano è stata recentemente chiamata a decidere su una causa legata alla presunta contraffazione di un marchio figurativo che includeva sia una parte denominativa che una figurativa, ritraente l’immagine di un cane bassotto.

Il marchio oggetto di contraffazione viene utilizzato da oltre trent’anni per promuovere capi di abbigliamento e accessori. Nella propria decisione, la Corte d’Appello ha svolto diverse valutazioni relative alla validità del marchio registrato, alla predominante capacità distintiva della parte grafica rispetto a quella denominativa, alla forza o alla debolezza del marchio e alla sua notorietà. Tali valutazioni sono state determinanti al fine di stabilire se vi fosse effettivamente una illecita contraffazione e se il titolare del marchio avesse pertanto diritto a un risarcimento dei danni causati dalla contraffazione.

I criteri normativi per il risarcimento dei danni da contraffazione

L‘articolo 125 del Codice della Proprietà Industriale (“cpi“) stabilisce le basi per il calcolo del risarcimento dei danni da contraffazione e prevede espressamente che: “Il risarcimento dovuto al danneggiato è liquidato secondo le disposizioni degli articoli 1223, 1226 e 1227 del codice civile, tenuto conto di tutti gli aspetti pertinenti, quali le conseguenze economiche negative, compreso il mancato guadagno, del titolare del diritto leso, i benefici realizzati dall’autore della violazione e, nei casi appropriati, elementi diversi da quelli economici, come il danno morale arrecato al titolare del diritto dalla violazione. La sentenza che provvede sul risarcimento dei danni può farne la liquidazione in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano. In questo caso il lucro cessante è comunque determinato in un importo non inferiore a quello dei canoni che l’autore della violazione avrebbe dovuto pagare, qualora avesse ottenuto una licenza dal titolare del diritto leso. In ogni caso il titolare del diritto leso può chiedere la restituzione degli utili realizzati dall’autore della violazione, in alternativa al risarcimento del lucro cessante o nella misura in cui essi eccedono tale risarcimento“.

L’articolo 125 cpi richiama l’articolo 1223 del Codice Civile, il quale fornisce parametri indiretti per calcolare il danno, tra cui le conseguenze economiche negative e il mancato guadagno del titolare del diritto leso.

Il danno risarcibile a seguito della contraffazione comprende il danno emergente e il lucro cessante. Il danno emergente consiste nelle spese vanificate dall’illecito e nelle spese affrontate per rimediare alla contraffazione, tra cui rientrano le spese affrontate per contrastare la contraffazione, le spese di pubblicità, marketing, monitoraggio del mercato e, più in generale, le spese legali.

Il lucro cessante, è invece il mancato profitto del titolare del diritto di proprietà intellettuale, ed è dato dalla differenza tra i flussi di vendita effettivi e quelli che il titolare avrebbe avuto senza la contraffazione. Tale valore risulta dalla differenza tra i flussi di vendita effettivi e quelli che il titolare avrebbe ottenuto senza la contraffazione.

L’articolo 125 cpi, comma 2, poi, detta una regola speciale di liquidazione equitativa del lucro cessante, consentendo che il giudice liquidi il danno “in una somma globale stabilita in base agli atti della causa e alle presunzioni che ne derivano“. Tale criterio è detto criterio del giusto prezzo del consenso o della giusta royalty, vale a dire del compenso che il contraffattore avrebbe pagato al titolare se avesse chiesto ed ottenuto una licenza per utilizzare l’altrui privativa industriale. Tale criterio opera come ulteriore elemento di valutazione equitativa “semplificata” del lucro cessante, qualora il titolare della privativa non sia riuscito a dimostrare l’effettivo mancato guadagno, e come fissazione di un limite minimo o residuale di ammontare del risarcimento.

È evidente che anche in caso di valutazione equitativa sarà necessario fornire la c.d. prova ontologica del danno, ovvero la prova che un danno, se pure non quantificabile con esattezza, si sia verificato.

La decisione della Corte d’Appello di Milano

Nel caso oggetto della recente decisione, la Corte d’Appello di Milano ha valutato la contraffazione del marchio “Harmont & Blaine” da parte del marchio “Thom Browne”. La Corte ha riconosciuto che il marchio “Harmont & Blaine” è dotato di una capacità distintiva significativa e che è un marchio noto sul mercato. Ha inoltre stabilito che l’uso del marchio “Thom Browne” ha creato un evidente rischio di confusione con il marchio “Harmont & Blaine.”

In merito al calcolo del risarcimento dei danni, la Corte ha tenuto conto delle spese legali e delle spese sostenute dal titolare del marchio “Harmont & Blaine” per proteggere il proprio marchio, nonché dei costi sostenuti per contrastare la contraffazione. Al fine di quantificare il lucro cessante, la Corte ha utilizzato criteri equitativi basati su presunzioni derivate dalla documentazione prodotta in atti, comprese le percentuali di ricavo di mercato e la giusta royalty applicata.

In conclusione, la Corte d’Appello di Milano ha rigettato l’appello proposto e ha confermato la sentenza del tribunale di primo grado, che aveva correttamente riconosciuto la contraffazione e aveva calcolato il risarcimento dei danni in base ai criteri normativi e alle presunzioni adeguate.

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