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La CGUE si pronuncia sulla possibilità del titolare del marchio di opporsi al suo uso da parte del rivenditore di prodotti ricaricabili.

Con una recente decisione, la Corte di Giustizia dell’UE (CGUE) si è pronunciata nell’ambito di una domanda di pronuncia pregiudiziale avanzata dalla Corte Suprema finlandese nella causa C‑197/21. In tale occasione, sono stati chiariti i confini di applicazione dell’articolo 15, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001 e dell’articolo 15, paragrafo 2, della direttiva 2015/2436, che riconoscono al titolare di un marchio che abbia commercializzato, in uno Stato membro, prodotti contrassegnati con tale marchio e destinati ad essere riutilizzati e ricaricati numerose volte, il diritto di opporsi all’ulteriore commercializzazione di tali prodotti, in detto Stato membro, da parte di un rivenditore di prodotti ricaricabili.

La controversia sull’uso del marchio in relazione a prodotti ricaricabili da parte del rivenditore

La causa è stata instaurata da un’impresa multinazionale che produce e vende dispositivi per la carbonatazione che consentono ai consumatori di preparare, con acqua di rubinetto, acqua gassata e bevande gassate aromatizzate (la “società A”). Più nel dettaglio, in Finlandia, la società A commercializza tali dispositivi con una bomboletta ricaricabile di biossido di carbonio, anche offerta separatamente. Le società nell’orbita della società A sono titolari di marchi europei e nazionali che figurano sull’etichettatura e sono incisi sul corpo in alluminio di tali bombolette.

Contrapposta alla società A, una società finlandese (di seguito, “società B”) che commercializza in tale Stato dispositivi per la carbonatazione per bevande con un marchio caratterizzato da un elevato grado di somiglianza con i marchi anteriori, riprendendone il comune elemento distintivo. Inizialmente, tale marchio era usato in imballaggi che di regola non includevano bombolette di biossido di carbonio. Tuttavia, successivamente, anche la società B ha dato seguito alla vendita di bombolette di biossido di carbonio riempite in Finlandia, compatibili sia con i propri dispositivi per la carbonatazione sia con quelli della società A, la quale ha anche contribuito alla loro iniziale commercializzazione.

Nello specifico, la società B, dopo aver ricevuto, tramite distributori, le bombolette della società A, rispedite vuote da consumatori, ricaricava le bombolette di biossido di carbonio e ne sostituiva le etichette originali con due proprie etichette, lasciando visibili, però, i marchi della società A incisi sul corpo del prodotto.

A fronte di tali procedure, la società A agiva avverso la società B, ritenendo tale modus operandi idoneo a violare i propri diritti di marchio e a generare un significativo rischio di confusione per il pubblico interessato anche all’origine delle bombolette, che avrebbe potuto ritenere erroneamente sussistente un rapporto commerciale o economico tra le società.

Più nel dettaglio, la società A ha sottolineato che le bombolette di biossido di carbonio vendute sul mercato finlandese non sono tutte della stessa qualità e non presentano tutte le stesse caratteristiche. Inoltre, i rivenditori che riempiono le bombolette in questione senza autorizzazione potrebbero non manipolare i prodotti in modo corretto e sicuro, non disponendo di sufficienti informazioni. Da ultimo, aggiungeva, altresì, che in caso di eventuali controversie, la società A, produttrice delle stesse, non avrebbe potuto incorrere in alcuna responsabilità per i danni causati da bombolette di biossido di carbonio non opportunamente ricaricate da tali rivenditori.

In replica, la società B asseriva che un cambiamento di etichetta non pregiudica la funzione del marchio di indicare l’origine della bomboletta, dal momento che il pubblico di riferimento è nelle condizioni di comprendere che l’etichettatura indica unicamente l’origine del biossido di carbonio e l’identità del rivenditore che ha ricaricato la bomboletta.

Tutto quanto anticipato, il 5 settembre 2019, il Tribunale delle questioni economiche accoglieva parzialmente le domande della società A, ritenendo che il contenuto di una delle etichette fosse idoneo a creare, presso un consumatore medio normalmente informato e ragionevolmente attento, l’impressione che esistesse un legame tra le società. La sentenza è stata poi impugnata dinanzi la Corte Suprema che ha poi sospeso il procedimento, avanzando una domanda di pronuncia pregiudiziale.

L’oggetto del rinvio

Le questioni oggetto di rinvio, sostanzialmente, sono quattro. In breve, si chiedeva se, e, in caso affermativo, a quali condizioni, il titolare di un marchio che abbia commercializzato, in uno Stato membro, prodotti contrassegnati con tale marchio e destinati ad essere riutilizzati e ricaricati numerose volte, sia legittimato ad opporsi ai sensi dell’articolo 15, paragrafo 2, del regolamento 2017/1001 nonché dell’articolo 15, paragrafo 2, della direttiva 2015/2436, all’ulteriore commercializzazione di tali prodotti, in detto Stato membro, da parte di un rivenditore che li abbia ricaricati e abbia sostituito l’etichetta su cui figura il marchio di origine con un’altra etichettatura, lasciando al tempo stesso apparire il marchio di origine su tali prodotti.

Fermo restando che il diritto del titolare del marchio di opporsi all’ulteriore commercializzazione dei prodotti recanti il suo marchio non è illimitato, la questione se il titolare del marchio possa opporsi all’ulteriore commercializzazione dei prodotti contrassegnati con il suo marchio e, in particolare, alle misure prese dal rivenditore riguardanti il ritiro delle etichette originali e l’apposizione di nuove etichette su tali prodotti, lasciando visibile al tempo stesso un marchio di origine, deve essere esaminata alla luce dei legittimi interessi del titolare del marchio e, in particolare, a quello relativo alla salvaguardia della funzione essenziale del marchio, ossia garantire al consumatore o all’utilizzatore finale l’identità di origine del prodotto contrassegnato.

Per quanto qui rileva, secondo quanto osservato in altra sede dalla CGUE, tra le ipotesi che ricadono nell’ambito di applicazione del suddetto articolo sussiste anche quella secondo cui l’uso da parte di un terzo di un segno identico o simile ad un marchio crea l’impressione che esiste un legame economico tra il titolare del marchio e tale soggetto terzo e, in particolare, che quest’ultimo appartiene alla rete di distribuzione del titolare o che sussiste una relazione speciale tra questi due soggetti. La Corte ha poi fornito i seguenti elementi interpretativi:

  1. l’impressione complessiva data dalla nuova etichettatura, e dunque le informazioni relative al titolare del marchio che ha fabbricato la bomboletta e quelle relative al rivenditore che effettua la ricarica, devono essere chiare e inequivocabili per un consumatore normalmente informato e ragionevolmente attento;
  2. al fine di valutare l’impressione suscitata dalla nuova etichettatura, devono essere prese in considerazione anche le pratiche nel settore interessato e i livelli di vendita coinvolti;
  3. la presenza, e visibilità, del marchio di origine rispetto all’etichettatura supplementare effettuata dal rivenditore sul prodotto è da considerarsi elemento pertinente nei limiti in cui sembra escludere il fatto che l’etichettatura abbia modificato lo stato del prodotto occultandone l’origine.

Sulla base di questi criteri, la Corte ha pertanto concluso che il titolare di un marchio che ha commercializzato, in uno Stato membro, prodotti contrassegnati con tale marchio e destinati a essere riutilizzati e ricaricati numerose volte non ha diritto di opporsi, in forza di tali disposizioni, all’ulteriore commercializzazione di tali prodotti, in detto Stato membro, da parte di un rivenditore che li abbia ricaricati e abbia sostituito l’etichetta su cui figura il marchio di origine con un’altra etichettatura, lasciando al tempo stesso apparire il marchio di origine su tali prodotti, a meno che tale nuova etichettatura non crei l’impressione errata nella mente dei consumatori che esista un legame economico tra il rivenditore e il titolare del marchio. Tale rischio di confusione deve essere valutato globalmente alla luce delle indicazioni che figurano sul prodotto e sulla sua nuova etichettatura, nonché in considerazione delle pratiche di distribuzione del settore interessato e del livello di conoscenza di tali pratiche da parte dei consumatori.

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