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Analizziamo quali problematiche legali emergono dallo sfruttamento dei diritti di proprietà intellettuale nel metaverso per il settore della moda.

Nessun altro settore ha abbracciato il metaverso come la moda. Brand come Gucci, Balenciaga e Burberry stanno creando nel metaverso abiti e accessori che probabilmente nessuno indosserà mai nel mondo reale.

Neal Stephenson ha coniato il termine “metaverso” nel suo romanzo Snow Crash del 1992, dove si riferiva a un mondo virtuale in 3D abitato da avatar di persone reali, a volte facilitato dall’uso di dispositivi per la realtà virtuale e aumentata, che avrebbero reso sempre più impercettibile il confine tra online e offline. Milioni di utenti comprano vestiti e skin per i loro avatar digitali e molti marchi della moda hanno collaborato con l’industria dei videogiochi per lanciare capsule collection digitali, che in certi casi potrebbero anche essere vendute nei negozi reali.

Un simile fenomeno comporta una serie di conseguenze a livello giuridico, soprattutto nel campo della proprietà intellettuale.

L’uso nel metaverso costituirà un uso genuino del marchio nelle sue classi principali o saranno necessari dei nuovi depositi? Supponendo che l’uso nel metaverso equivalga effettivamente ad un uso in funzione di marchio, le aziende dovranno riesaminare le loro strategie di deposito e valutare se sia garantita sufficiente protezione al marchio in un meta-ambiente. Questo potrebbe portare a ridefinire il portafoglio dei marchi e considerare depositi, per esempio, nelle classi 9 e 41. In caso di fenomeni di meta-squatting, si dovrà tener conto della possibilità di dare evidenza della reputazione del marchio, accedendo alla protezione rafforzata nei confronti di prodotti dissimili.

I marchi della moda dovranno anche valutare la portata dei propri diritti sui prodotti che vorranno introdurre nel metaverso. Ciò può essere più semplice nel caso di opere realizzate da dipendenti che verranno trasformate in beni digitali o NFT, ma meno immediato per quanto riguarda le opere create da collaboratori indipendenti. Nei contratti di licenza standard o negli accordi di collaborazione è necessario prestare particolare attenzione alle “clausole sulle nuove tecnologie” che normalmente estendono il diritto di sfruttamento su tutte le tecnologie conosciute al momento e da sviluppare in futuro. In ogni caso, la strategia migliore è quella di redigere clausole di cessione di tutti i diritti di proprietà intellettuale sulle opere interessate, che comprenderanno poi anche le varie forme di sfruttamento nel metaverso.

Un’altra problematica riguarda il principio di territorialità dei diritti di proprietà intellettuale nel metaverso. Su questo punto, è ragionevole supporre che il principio generale di ubiquità, già utilizzato per Internet, permetterà di citare in giudizio per violazione in tutti i fori presso cui il contenuto illecito è reso accessibile, con la possibilità di richiedere maggiori danni per la violazione a livello mondiale nel foro presso cui l’autore della violazione o qualsiasi hosting o service provider ha sede legale.

Inoltre, se parliamo di mondi virtuali potenzialmente connessi, che ne è dell’interoperabilità tra i vari programmi su cui si baserà l’architettura del metaverso? Se puntiamo a uno spazio virtuale accessibile a tutti, la nozione di licenze FRAND (Fair, Reasonable and Non-Discriminatory) e la portabilità dei dati, sviluppata in altre aree del diritto, potrebbero avere un ruolo e contribuire a creare standard comuni, disponibili per tutti gli operatori.

Stephenson probabilmente non poteva immaginarlo, ma il metaverso è già qui e se vogliono farne parte le aziende di ogni settore, dovrebbero essere pronte a ridefinire la propria strategia, al fine di garantire l’estensione dei loro diritti di proprietà intellettuale a questo nuovo spazio virtuale.

Su di un simile argomento, può essere interessante l’articolo “I diritti di proprietà intellettuale nel metaverso: NFT e moda“.

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